Cosa è accaduto in quei 120 secondi? La dichiarazione dei macchinisti e di alcuni testimoni.

Disastro a Viareggio 2

«Stavamo entrando nella stazione di Viareggio», raccontano i macchinisti, di certo non due novellini: entrambi della Spezia, 36 anni il primo, quindici spesi sui treni, cinquantenne il secondo che ha passato metà della vita sulle locomotive. Giurano che loro non c’entrano niente: «Andavamo a novanta all’ora (93 chilometri, dicono i primi rilevamenti, ndr), in quel tratto il limite è di cento. All’improvviso abbiamo sentito uno strappo. È bastata un’occhiata nello specchietto per capire: il primo vagone era uscito dai binari», raccontano. È soltanto l’inizio: il vagone comincia ad arare il terreno. Dopo duecento metri si capovolge e trascina con sé altri tre vagoni. Tutto succede per un pezzo di metallo da pochi euro: boccola della sala, la chiamano i tecnici: «In pratica il pezzo che collegava l’asse e la ruota anteriore del primo vagone ha ceduto». Perché? «Abbiamo dubbi sulla manutenzione», è la strada seguita dagli investigatori. Indagare, certo, stabilire le responsabilità, ovvio. Ma è difficile quando hai davanti la scena dell’incidente.

Una tragedia che si è consumata sotto gli occhi di tutta Viareggio. «Abbiamo sentito un rumore infernale, come il verso di un animale gigantesco», racconta Ilio Capelli - 73 anni - che abita, anzi abitava in via Ponchielli. È il rumore del treno che sbanda, si contorce come una bestia ferita, deraglia. Poi qualche attimo di silenzio irreale. «Siamo scesi dalla motrice e abbiamo sentito un odore intenso di gas», raccontano i macchinisti. In via Ponchielli la morte ha avvisato prima di arrivare. Il vagone numero uno si è sdraiato su un fianco e ha lasciato fuoriuscire quel gas azzurrino. «Abbiamo visto una nuvola colorata che si spandeva lungo i binari», raccontano Luca e Maurizio Pescaglini, sono vivi perché tra la loro casa e la stazione c’è, anzi, c’era un palazzo. Passa un minuto, interminabile. Poi la scintilla, forse la marmitta rovente di un motorino oppure le ruote ancora caldissime del treno.

«Ho visto il cielo esplodere», racconta Tullia Marconi puntando il dito in alto. Ma se ieri chiedevi ai testimoni che cosa avessero visto nei momenti successivi all’esplosione, come risposta ottenevi sospiri, frasi spezzate. Lacrime, anche. «Scene così le ho viste soltanto in guerra», Eliana Pizzetti ha 75 anni e ripete una, dieci, venti volte quella parola: guerra. Ricorda il bombardamento della stazione di Viareggio del 1944. Non riesce a descrivere quello che ha dentro gli occhi. Per lo choc, ma anche per pietà per i morti. Ci prova Roberto Galli, volontario della Croce Verde di fronte alla stazione: «Ho visto persone che si lanciavano dalle finestre, uomini e donne che correvano con le gambe in fiamme, che cercavano di strapparsi i vestiti di dosso e perdevano brandelli di carne. E poi corpi carbonizzati in mezzo alla strada». Impossibile salvarsi: fuoco dentro e fuori le case. Per sfuggire alla morte ti cacciavi nelle sue braccia. «Si è fuso perfino l’alluminio, c’erano seicentocinquanta gradi. Quando siamo arrivati l’asfalto si scioglieva sotto i piedi», raccontano i vigili del fuoco. Un’ondata di calore, una mano invisibile, arrivata fino a un chilometro di distanza: motorini ridotti a scheletri di metallo, pneumatici sciolti, auto scorticate, vetri scoppiati, grondaie liquefatte, tende bruciate.

Marianna Darcia, 62 anni, pensionata, guarda la sua casa, numero 16 di via Ponchielli. È felice, certo, ma si sente anche in colpa. Lei parla, osserva suo marito. Sono vivi. Ma perché Andrea e Maria Luisa Falorni, marito e moglie della porta accanto, invece sono morti? Assomiglia tanto al destino questa fiamma che ha illuminato la notte di Viareggio: ha spazzato via una casa e ha risparmiato quella vicina. E se il treno si fosse ribaltato cento metri più avanti? Se si fosse coricato sul lato destro, dove non ci sono case? Ieri via Ponchielli non esisteva più. Nell’aria una cappa di fumo che ha schiacciato il cielo di Viareggio per tutta la giornata. E non importa che ci fosse il vento, che piovesse: niente è bastato per togliere dal respiro della gente quell’odore tremendo. Odore di bruciato, certo, ma diverso da qualsiasi altro. Impossibile levarselo di dosso. Sa di gas, metallo, asfalto, e di vite che sono state portate via.

Le ruspe scavano, scavano sotto gli occhi dei parenti che aspettano, ma non sanno nemmeno cosa sperare. Cristiano ed Emiliano Falorni, due fratelli, guardano il vuoto dove fino a poche ore prima era la casa del fratello Andrea: «Non ci sono più speranze», si ripetono l’un l’altro per abituarsi un po’ per volta all’idea. E poi chissà che cosa verrà fuori dalle macerie: «Per riconoscere le salme ci vuole l’esame del dna», allargano le braccia i vigili del fuoco. C’è tutta la vita in via Ponchielli: il dolore sordo, ma composto di Cristiano ed Emiliano sta accanto alla felicità che emerge dalle macerie insieme con Leonardo Piagentini, un bambino. È vivo. Il suo nome era già stato scritto nell’elenco dei morti.

E poi ecco Katia Pierotti che si aggira tra la folla insieme con i suoi figli, che chiede informazioni e nemmeno sa di essere nella lista dei dispersi. «Ma allora sei viva?», la abbraccia un’amica come se fosse riemersa dall’inferno. «Sì, sono riuscita a uscire di casa appena in tempo», sorride Katia. Disperazione, sollievo, rabbia si confondono nell’aria insieme con la cenere.
La Stampa

2 commenti

  1. Eleonora giovedì 2 luglio 2009 alle 09:38:07

    Ciao Luisa. Ciao Andrea.
    Non vi dimenticheremo mai. Pace a tutte le vittime e condoglianze a tutte quelle famiglie che piangono i loro cari.
    Non ci sono parole, solo un immenso vuoto.

  2. Filippo mercoledì 1 luglio 2009 alle 18:28:12

    Cosa vuoi commentare...è andata così, è tremendo ma purtroppo è successo...poteva succedere prima o dopo e non sarebbe successo nulla....ma quella notte....è andata così...dolore, disperazione, pianto...speriamo che chi deve non dimentichi mai....noi non dimenticheremo.

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