Invito a Teatro: Lettera immaginaria a Louis Jouvet

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Lettera immaginaria a Louis Jouvet:
Questa lettera immaginaria, che chiude la rubrica Invito a Teatro, è stata scritta da Strehler nel 1986. La riprendo così com'è e la faccio mia, invitandovi a riflettere sul suo significato profondo.
Grazie alla prossima!

Rebecca Palagi


1-06-1986
Dedica alla figura di Jouvet

Caro Patron,
Vi scrivo una lettera dopo una prova in cui ho detto delle vostre parole. Le ho dette a me stesso, le ho dette a Giulia che era Claudia, le ho dette ai ragazzi, le ho dette ad un pubblico ancora immaginario. Domani non lo sarà più. Sarà il “pubblico”, vero, l’unico, eterno, uguale pubblico di sempre. Il vostro, il mio e quello di coloro che verranno dopo di me come è stato quello di coloro che verranno dopo di me come è stato quello di coloro che sono venuti prima di noi. Ci siamo nutriti con grande commozione, con una enorme gratitudine dei vostri pensieri, ed io, questa notte non so dirvi molto.

Come sempre i pensieri e le parole sono confusi ma le sensazioni nette e chiare. Mi avete insegnato voi a non cercare di capire “troppo” nel teatro. Mi avete detto voi: l'intelligenza per un attore è sentire molto alto. E mi avete detto voi: l'albero che cresce non pensa di crescere. Cresce e basta.

Pure anche in me, come in voi, c’è questo bisogno di capire, di pensare al teatro, al nostro mestiere.
«Come si può fare il teatro senza pensare al teatro», dicevate. A me viene da scrivere: come si fa a resistere tanti anni, dentro questo mestiere che ha sempre, in sé, qualcosa d’infame e d’indegno, di vano e d’inutile? Avete resistito, voi, fino all’ultimo. Sto resistendo anch’io. E forse solo oggi sono riuscito a capire finalmente quello che volevate, dicendomi una sera, dopo una recita proprio del Don Giovanni, ad un tavolo anonimo e per me indimenticabile: «Gli attori non hanno vocazione. Se viene, per gli attori, viene dopo. Arriva alla fine». Furono queste, esattamente, le vostre parole. Nella mia giovinezza entusiasta, vi ascoltavo, qualcosa capivo. Ma questo non lo potevo capire. Mi sentivo “assolutamente votato”, in quel momento, al teatro. Ero follemente pieno di “vocazione teatrale”, di stupore, di amore teatrale, di passione teatrale. Perché, perché avrei dovuto aspettare “alla fine”? Sono passati anni ed anni di pratica e di mestiere. Lunghissimi e rapidissimi, uno spettacolo dopo l’altro, un testo dopo l’altro, un viso dopo l’altro, una voce, un suono, una luce dopo l’altra e sono arrivato qui, a questo desolato “dopoprova”, solo, nella penombra della stanza, alla mia vecchia macchina per scrivere che perde i colpi e si mangia le parole troppo consunte. A parlare con me stesso e al mondo che assolutamente non sente, ancora del “teatro”. Ad essere ancora nel teatro, direi senza pietà, senza riserve, disperatamente toccato dal Teatro come, per chi crede, dalla Grazia.

E vi scrivo per farvi sapere, in qualche modo, che adesso, solo adesso, ho capito. Che solo adesso, nell'angoscia estrema, nella stanchezza estrema, nella nausea estrema, nel rifiuto estremo del teatro, non potendolo rifiutare perché più forte di me, più forte di tutto, adesso so cos’è non la “passione teatrale” (quella era così facile, così calda, così immemore e felice!) ma la “vocazione teatrale”. Che è pietra e sangue. Proprio adesso che è tanto tardi, so che questa vocazione mi possiede tutto e che prima mi ha messo solo alla prova. Forse anche quella di oggi è ancora una prova. Ma se prova è, essa è estrema. È l’ultima.

Patron, sì io sto vivendo, accanto a voi, l’ultima prova d’amore che il teatro mi chiede. Ora non posso proprio dargli di più. Non mi è rimasto niente. Sono finalmente e totalmente spossessato di me. Resta solo Lui, fuoco che brucia con un fulgore insostenibile, senza fiamma. E senza cenere. Come un astro che sparge i suoi atomi nell’Universo.
Amen.
Anche per me sono le tre del mattino.
Un giorno di giugno del 1986.

Giorgio Strehler

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